Riflessioni sull’utilizzo dell’italiano e degli anglicismi

Come mai i linguisti italiani quando vengono intervistati in radio, in televisione, sugli articoli scritti in rete, sugli audioprogrammi (podcast) o su YouTube parlano sempre delle parole inglesi “computer”, “mouse”, “jobs act”, “spending review”, “lockdown” e “smart working” e non dei loro traducenti?

Secondo me quelle parole inglesi, spesso non vengono dette poiché i linguisti sottovalutano l’esistenza di un traducente. I traducenti di queste parole sono: “elaboratore”, “topo”, “legge sul lavoro”, “revisione della spesa pubblica”, “confinamento” e “telelavoro”. Nel caso dei traducenti informatici, secondo Antonio Zoppetti “calcolatore” e poi anche “elaboratore” si utilizzavano fino agli anni ’90, attualmente si utilizza solamente “computer”, mentre l’anglicismo “mouse” non si è mai pensato di tradurlo come “topo”.
Perché i linguisti non vengono mai chiamati per parlare delle parole inglesi come: “guardrail”, “motel”, “permafrost”, “baseball”, “bob”, “motocross”, “Mauritius” e “Seychelles”?
Capita che i linguisti vengono chiamati nei mezzi di comunicazione (tv, radio, giornali, libri, ecc…) per discutere di argomenti legati all’interferenza dell’inglese sull’italiano, soprattutto nei linguaggi istituzionali, tecnologici (l’elaboratore e il topo elettronico) e sociali.
Mi piacerebbe che i linguisti venissero invitati anche per parlare di studi sulla lingua italiana in ambito stradale, sportivo, naturalistico, geografico, toponomastico e culinario.
Sarebbe bello invitare a parlare di questi argomenti sui media i linguisti come: Antonio Zoppetti, Claudio Marazzini, Paolo D’Achille, Francesco Sabatini, Vittorio Coletti, Vera Gheno, Annamaria Testa, Peter Doubt, Valeria Della Valle, Alessio Petralli e tanti altri.

(Daniel Saja, Edoardo Bianchi, Fabio Colombo, Officina025 ONLUS)